In questo articolo parlerò della mia esperienza con Dragon Age: Inquisition. Tutte le opinioni qui contenute sono a titolo squisitamente personale.
Non nascondo una certa difficoltà nel parlare di questo gioco, di certo dovuta agli innumerevoli impulsi e spunti di riflessione che il terzo capitolo della saga Bioware offre, spesso non sempre esaltanti. Io stesso, pur possedendo tutti i capitoli, non posso che qualificarmi come un fruitore perplesso piuttosto che un fan hardcore del brand. Pur ritenendo i titoli della serie Dragon Age molto validi, ho sempre riscontrato in loro un qualcosa di vagamente già sentito e di già visto, come se l’esperienza di gioco non riuscisse mai ad appagarmi del tutto. Questo terzo capitolo è per me la conferma di quanto anticipato fino ad ora. Naturalmente sono conscio del fatto che i GdR di stampo fantasy non possano avere, per limiti naturali, troppe variazioni sul tema, anche se c’è modo e modo di rendere la propria visione, di imprimerla e di concretizzarla in quello che poi dovrà essere un gioco. Ecco, diciamo che per me il modo in cui Bioware rende i propri giochi, ed è un discorso in cui includerei anche Mass Effect, mi ricorda un po’ le dinamiche delle cover band, quelle con i soldi. Mi rendo conto che il parallelo sia un po’ azzardato, ma ci sono i Beatles (un nome per tutti, perché mi fa schifo dire U2), e poi ci sono le cover band dei Beatles che hanno soldi da investire nella strumentazione vintage, nell’abbigliamento (che magari cambiano a seconda del pezzo che suonano), nella scenografia, nei fuochi d’artificio e in tutto quello che può servire ad un set altrimenti vuoto e privo di senso, se non quello del gusto della replica e della possibilità di rivivere ancora una volta un fenomeno le cui caratteristiche si presentano una volta sola. Le cover band possono essere divertenti anche per questo, figuriamoci, lungi da me il giudicare. Se mi è concesso di continuare ancora per due righe su questo parallelo spericolato, vorrei concludere dicendo che l’impressione generale che ne ricavo è che i ragazzi Bioware, grandi fan dei Beatles, invece di fondare un gruppo originale ed iniziare cosí a declinare diversamente ciò che già esiste, e mi viene in mente Bethesda ad esempio, optino sempre di investire tutti i loro soldi nel ricalcare pedissequamente la musica dei Fab Four e suonarla al pub sotto casa, che comunque la gente viene, beve e alla fine ci divertiamo tutti. Chiaro no?
Dragon Age: Inquisition (d’ora in poi: DAI) è un gioco dalle proporzioni enormi, eppure dispersivo, caratterizzato da una trama relativamente intricata (e che affonda le sue radici nei due precedenti episodi) eppure già sentita mille volte. Un gioco caratterizzato da promesse mantenute a metà ed aspettative gonfiate dall’ampia campagna pubblicitaria ad esso dedicata. Un gioco presentato alla massa con le fattezze di un colossal, ma lontano dall’essere una pietra miliare nel campo dei GdR di stampo occidentale nei risultati. Bioware ha saputo sicuramente raccogliere i frutti della saga fidelizzando i fan più accaniti – ed anche quelli più perplessi come me con un titolo di buon livello, le cui magagne sono mascherate da una pomposità vaga che non trova evidenza nella realtà dei fatti.
Le delusioni cocenti scaturite da Dragon Age II (protagonista di vendite altissime, ma di anche di grandi discussioni) hanno posto Bioware nella scomoda posizione di dover rilanciare sé stessa ed uno dei sui due prodotti più rappresentati (l’altro è ovviamente Mass Effect) in un colpo solo sfruttando i vantaggi offerti dalle architetture delle nuove console.
Chi ha seguito le news riguardanti lo sviluppo di DAI, ricorderà benissimo la varietà di proclami, a volte corredati da immagini, altre volte da video, rilasciati da Bioware con una certa regolarità. Molti di questi ponevano l’accento sulla natura Open World del titolo, allontandolo di fatto da uno dei più grandi difetti del tanto vituperato secondo capitolo, vale a dire una mappa di gioco ridotta e piuttosto monotona. Si calcava inoltre sulla rivisitazione del sistema di combattimento, che nel secondo capitolo privilegiava un approccio action ai limiti dell’hack’n’slash, mitigato però dai consueti alberi di apprendimento delle abilità che mantenevano il titolo ancorato alla sua componente più squisitamente ruolistica. Come non dimenticare inoltre gli ovvi riferimenti ad un comparto grafico di qualità superiore ai predecessori e a varie ed eventuali quali l’introduzione dei draghi o un looting/crafting di grande spessore, il tutto più o meno aggiornato sulla scorta di titoli (come ad esempio Skyrim e Diablo III Reaper of Souls GOTY) che nell’intervallo tra Dragon Age II e Inquisition hanno saputo mietere con merito il mercato.
Ma andiamo con ordine.
Dal punto di vista della trama DAI parte dagli eventi narrati dai precedenti capitoli. Non mancheranno infatti durante lo scorrere del gioco riferimenti continui all’Archdemon sconfitto in Origins cosí come espliciti collegamenti ai fatti che videro Hawke e la città di Kirkwall protagonisti assoluti del secondo episodio. A dare manforte a questa interessante e lodevole “stratificazione storica” centinaia di manoscritti, infinite linee di dialogo e numerosi approfondimenti sulle diverse etnie e problematiche che popolano il continente del Thedas, suddiviso nei due territori di Orlais e Ferelden.
Le dimensioni quasi ciclopiche della trama principale vengono raddoppiate dal fiorire di innumerevoli side quests e relative side stories, che contribuiscono ad arricchire maggiormente la sensazione di entrare a piedi uniti in un mondo più o meno organico e barocco. Il ritorno inoltre di personaggi storici come Morrigan, Flemeth e Hawke tra gli altri, non fa che confermare ancora di più la volontà di Bioware di presentarci un qualcosa di imponente sul piano dei contenuti, e l’evidente intento di regalare qualche sorriso nel rivedere questi sfilata di “vecchi amici”.
Cercando di offrire un sintetico riassunto sui fatti che sconquassano il Thedas, e senza il rischio di cadere in spoilers più o meno compromettenti, possiamo dire che dopo gli episodi del secondo capitolo Templari e Maghi se le stanno dando di santa ragione (non che corresse buon sangue anche in Origins…) mentre in Orlais è in atto una guerra civile tra due fazioni, quella dell’imperatrice Celene e quella del presunto erede al trono Gaspard de Chalons. A causa di tutto questo marasma, Cassandra, mano destra della Divine Justinia chiede e ottiene di riformare l’Inquisizione, braccio armato della Chiesa – o Chantry – e strumento utilizzabile solo in casi di estrema necessità. La “Divine” Justinia ordina quindi un concilio tra le tre parti coinvolte nei fatti, ovvero Chiesa, Maghi e Templari, ma proprio mentre queste si radunano presso il Tempio delle Sacre Ceneri un’esplosione apre in due il cielo radendo al suolo il Tempio stesso (e praticamente chiunque si trovasse al suo interno, quindi i tre maggiori rappresentati dei tre ordini) aprendo ai demoni dell’Oblio una specie di autostrada a sei corsie per scendere nel mondo dei mortali e farli a fette.
Naturalmente il nostro alter ego è tra i pochi sopravvissuti all’ecatombe, trovandosi all’improvviso dotato di “poteri” per chiudere questo malefico varco. Con questo obiettivo in testa, sarà nostro compito cercare alleanze in ogni direzione per ingigantire le fila dell’Inquisizione ed eventualmente fare i conti con il cattivone di turno, tale Corypheus, che come avrete ormai capito non le manda certo a dire.
Soffermandoci un momento sulla trama, appare chiaro dopo poco tempo che, al netto dei soliti intrighi politici tipici della serie (maghi Vs templari, elfi dalish schiavizzati e discriminati dagli umani, nani che se ne fregano, Tizio doppiogiochista, Caio che vorrebbe ma non può e Sempronio che mira solo al potere, ma ha in fondo un cuore d’oro) l’acme sia raggiungibile acquistando cosí tanto potere (in termini di build del personaggio e alleanze) da essere in grado di sferrare l’attacco finale che risolverà molto banalmente gli sconquassi sociali ed i terremoti politici illustrati con lo scorrere della trama. Si ha spesso dunque l’impressione che le azioni determinanti i favori e la fiducia da parte di popoli e fazioni siano in realtà caselle da riempire meccanicamente su di un lunghissimo (e pieno zeppo di eventi a dire il vero) tabellone che ci accompagnerà dritti verso la fine della storia.
In altre parole, pur mettendocisi di impegno, bestemmiando davanti ai templari, pisciando sulle leggi della Chantry, schiaffeggiando un povero elfo dalish, bruciando maghi e deridendo i nani perché giustamente nani, si arriverà comunque al finale del gioco. Lo scontro finale non sarà particolarmente influenzato dal numero delle nostre alleanze, perché prima di tutto è impossibile non farne. Che vi schieriate con i Templari o con i Maghi, con l’Imperatrice o il suo diretto concorrente al trono, avrete sempre qualcuno che vi appoggerà. Questo non fa che ridurre drammaticamente le possibilità, almeno in superficie enormi, offerte dal titolo, particolarmente in questa struttura simil Open World (argomento sul quale tornerò dopo). Se in termini di game designing pensiamo al principale compito dell’Inquisitore/giocatore come ad un tentativo di radunare più forze possibili per affrontare il Male, ma allo stesso tempo neghiamo alla stessa figura la possibilità di fallire in tale compito (o di non portarlo adeguatamente a termine quantomeno) dobbiamo mettere in seria discussione le strutture principali sulle quali si basa DAI, svelandone la natura un po’ paradossale. Da un lato siamo chiaramente invitati ad esplorare in lungo e in largo il mondo di gioco, ad interagire con i PNG (altro argomento scottante sul quale tornerò successivamente), a stringere alleanze traendone potere e riconoscimento e a, perché no, approfondire il Lore sparso copiosamente per il mondo, mentre dall’altro ci troviamo chiaramente su dei binari che non prevedono svolte o soste. a meno che non siano state già programmate nella scaletta pensata da Bioware. Il treno che corre su questi binari, sappiatelo, arriverà sicuramente a destinazione con tremenda puntualità, impoverendo quella dose di magia ed esperenzialità (voglio far mio questo concetto di Pikkio) offerta in titoli come Skyrim, in cui anche una semplice passeggiata nei boschi o per le montagne poteva – e può ancora adesso per quanto mi riguarda – dare la sensazione di trovarsi in una specie di realtà aumentata con cui essere organicamente parte. Con DAI alle volte invece si viene posseduti da una sensazione di giustapposizione poco riuscita, in cui tutti gli elementi non riescono completamente a fondersi e a contribuire ad una grandezza di insieme.
La trama quindi si perde un po’ per strada e si ha un brutto sentore non solo di approssimazione, ma anche di raffazzonamento dei più classici elementi fantasy. L’impressione che questa piattezza narrativa sia abilmente nascosta da un’enorme e quanto mai illusoria grandeur di contenuti diventa, man mano che si va avanti, piuttosto evidente, almeno per chi scrive. Intrecci politici alla Game of Thrones e un’epica alla Lord of The Rings in versione Happy Meal accrescono la sensazione di assistere ad una teoria di luoghi comuni tipici del genere che persino un bambino potrebbe prevedere. Ancora di più, vi sono momenti in cui il fattore “idee-prese-in-prestito-in-buona-fede” è disarmante: dalle piccolissime cose fino alla questione relativa alla magia del sangue, già vista, sentita e narrata nei libri Game of Thrones. In altri momenti invece veniamo impietosamente messi di fronte a dei veri e propri plagi, come nella sequenza postata qui sotto. Avete presente questo momento corale sottolineato dal brano The Dawn Will Come?
Bene, ora ascoltate questa:
Le cose quindi sono due: o negli uffici di Bioware sono letteralmente impazziti, oppure questo plagio smaschera (assieme ad altri mille elementi) la povertà di idee del team di sviluppo. Trovo incredibile che in uno dei momenti chiave del gioco si assista ad un plagio di una canzone tratta da un momento chiave di un film come LOTR. Come questa trovata geniale sia venuta in mente ai ragazzi Bioware è altra materia da romanzo come diceva Balzac, e per quanto mi riguarda, la dice lunga sulla superficialità con la quale questo pomposo giocattolone è stato costruito.
Intendiamoci, non stiamo parlando di un gioco catastroficamente brutto, tutt’altro. Gli scontri sono ben fatti e le ambientazioni apprezzabili, anche dal punto di vista della realizzazione tecnica. Graficamente parlando il salto generazionale tra console è evidente e molto, molto gradevole. Ingaggiare un drago in combattimento è fighissimo e va detto come in generale non sia raro assistere a momenti esaltanti. La gestione dei personaggi si articola secondo i classici rami delle abilità ai quali la serie ci ha abituato, e complessivamente l’aspetto manageriale del gioco è molto interessante anche grazie alla possibilità della personalizzazione delle armi e delle armature attraverso la raccolta di materiali che ne permetteranno la modifica. Viene reintrodotta direttamente da Origins la visuale tattica, una specie di telecamera a volo di uccello che ci permette di congelare il gioco per assegnare ordini personalizzati ad ogni membro del nostro party, il cui funzionamento e comodità però sono discutibile nei risultati. Inoltre, disponendo di un party ben assortito, è possibile massacrare più o meno chiunque ci si pari davanti senza preoccuparci troppo di chi colpire per primo e con quale arma o incantesimo. In alcuni tratti infatti le fasi di combattimento mi hanno ricordato nelle loro dinamiche quelle di Diablo III, spostando quindi l’ago più su quel determinato tipo di approccio allo scontro che sul “fermati e ragiona”.
Poco riuscita secondo me anche la fase di pianificazione dell’Inquisizione la quale si sviluppa attraverso dei punti acquisibili tramite operazioni da far svolgere passivamente al nostro “team” e che poi serviranno a sbloccare non solo zone inesplorate o ricompense, ma anche fondamentalmente ad andare avanti nel gioco, spendendoli per “aprire” le diverse fasi principali della storia e progredire. Per quanto simpatica come idea, la passività della maggior parte degli eventi impone anche qui una sensazione di linearità poco avvincente e che poco aggiunge all’economia della nostra esperienza di gioco. In poche parole, se all’inizio l’idea di gestire la nostra Inquisizione con un approccio quasi da war game strategico sembra essere interessante e in grado di conferire al gioco quella sfumatura particolare che lo potrebbe renderlo ancora più coinvolgente, la poca interattività degli eventi, la poca rilevanza di alcune ricompense o di alcuni obiettivi raggiunti rende il tutto un pochino piatto. Certo, è possibile personalizzare Skyhold, è possibile sbloccare missioni particolari, è possibile ricevere qualche runa od oggetto speciale ma, l’apporto dato alla fruibilità del gioco è minimo.
DAI, come dicevo poco sopra, è veramente enorme, ma il problema della grandezza – specialmente con la nuova generazione di console in cui la tendenza all’Open World sembra farla da padrone – va preso con le molle. Grande non vuol dire necessariamente bello, avere un milione di missioni disponibili non vuol dire necessariamente divertimento. Oggi invece mi sembra sia questo il messaggio che viene dato come vincente nelle campagne pubblicitarie dei giochi. Mi viene da pensare ad esempio al prossimo No Man’s Sky: un gioco che bene o male tutti aspettiamo e il cui accento è continuamente posto sul fantastillione di pianeti visitabili, come se questa fosse l’unica vera caratteristica determinante.
Parliamo quindi dell’Open World introdotto in DAI cominciando col dire che non siamo di fronte ad un Open World nel vero senso del termine, ma a MAPPE molto OPEN (ma nemmeno troppo) che determinano i confini di un WORLD che vedrete nella sua interezza solo sul famoso tavolo di guerra dell’Inquisizione di cui parlavo prima. In queste mappe, molte a dire il vero, la misura della qualità dell’OPEN viene determinata dall’interagibilità con l’ambiente circostante e quanto esso, e tutti i suoi elementi, siano soggetti a cambiamenti. Non serve neanche un microscopio per notare ad esempio che:
- Non è dato superare le barriere invisibili che delimitano lo spazio della mappa.
- Non è possibile arrampicarsi sulle montagne e valicarle, a meno che non ci sia un sentiero.
- Se entrate in acqua, affogate automaticamente tipo Pitfall.
- Non esiste un ciclo giorno-notte. In alcune mappe è giorno perenne, in altre è buio perenne.
- Non esiste un ciclo metereologico. In alcune mappe piove sempre, in altre c`è sempre il sole.
L’impressione che si ha quindi è che da Dragon Age: Origins a DAI non sia cambiato niente, se non la larghezza (cosí come chiaramente la ricchezza di dettagli) delle mappe in generale. Alcune di queste sono veramente estese, eppure il fatto di non poterle proprio attraversare a piacimento (ogni tanto accade purtroppo) è una seccatura. Un’altra cosa di cui rendere conto sono i PNG, la cui realizzazione è perfettamente in linea con la natura morta osservata in questo Open World alla “volemose bene” messo in piedi da Bioware. Anche in questo caso è facilmente osservabile che:
- In DAI i PNG restano inchiodati dove li trovate la prima volta, letteralmente (a meno che non cambino location per esigenze di copione). Non abbiate timore di non vedere più quell’idiota fermo sotto una roccia nel deserto. Rimarrà lì per tutto il tempo.
- In DAI i PNG dicono sempre la stessa cosa. Avete presente l’idiota fermo sotto una roccia nel deserto? Bene, vi dirà sempre la stessa cosa.
- In DAI molti PNG preferiscono non parlare con voi. Avete presente l’idiota fermo sotto una roccia nel deserto? Bene, lui è una benidizione a confronto di quel gruppo di tre elfi seduti vicino ad un carretto che parlottano tra di loro su quanto sia FIGO l’Inquisitore (cioè io o voi che leggete e giocate) e di quanto sarebbe FIGO fare qualsiasi cosa per lui, come ad esempio arruolarsi o qualcosa del genere. Non importa quanto premiate X vicino a questo gruppetto per fargli un gesto alla Fonzie e dire “Hey ragazzi, è arrivato l’Inquisitore.. Autografo?”, è come se voi non esisteste.
- In DAI gli “agenti” che reclutate sono inutili. Bighellonavo nel Fallow Mire quando incontro un colosso armato di un accettone. Dico, “Hey amico, vieni con me, lui dice, Ok amico mi hai convinto, spaccherò facce per te”. Mai più visto.
Voglio spendere due parole anche sul doppiaggio dei personaggi, generalmente buono, ma non INCREDIBILE come invece molte recensioni affermano, segnalando alcune scelte curiose relative all’attribuzione di una varietà di accenti, Lungi da me pensare che dietro a ciò si nasconda una macchinazione stupidamente discriminante, ma è curioso notare come Bioware sia riuscita ad associare tale accento a tale cultura. Di seguito una serie di impressioni che sicuramente lasciano il tempo che trovano, ma che spero diano da pensare ad alcuni di voi:
- Elfi Dalish: parlano quasi tutti con una sospettosissimo accento irlandese. Buffo constatare come i Dalish siano tutti vestiti di verde e nomadi (e come gli irlandesi vengano spesso spregiativamente apostrofati “gyppos”), o completamente schiavizzati dal nobilotto di turno. L’eccezione la fa Jenny che se ne va in doppio passo in Cockney, ma la sostanza è sempre quella.
- Tevinter: Quelli che comandano, quelli che hanno il diritto di comandare, quelli che hanno gli schiavi Dalish a casa, quelli che hanno il “sangue” giusto nelle vene giuste parlano uno squisito ed alquanto ostentato Queen’s English, a tratti cosí palese da suonare quasi tronfio e posticcio, molto spesso fuori luogo. Gli esempi di Dorian e dell’Inquisitore stesso sono in questo caso perfetti. Da una parte abbiamo il mago del Tevinter che parla con il “wit” di chi sa di avere un palco tutto per sé (cosa anche giusta considerato il personaggio, ma alla lunga irritante). Dall’altra l’Inquisitore che pur messo davanti a tragedie e atrocitá non perde quell’impostazione da stoccafisso che gli hanno conferito in sala doppiaggio. Persino Morrigan parla un inglese che nemmeno il personaggio più fantasy partorito da un giocatore alle prime armi di D&D avrebbe il coraggio di farle parlare.
- Orlais: quale colore dare a questa particolare fetta della popolazione del Thedas, amante del potere e degli intrighi, dello sfarzo e della lussuria, dell’eleganza e dello snobismo se non quello del più ODIOSO accento francese mai ascoltato prima?
- Rozzi, poveracci, violenti e ubriaconi: qui si varia liberamente dallo Scozzese all’Irlandese del Nord e gallese (accenti che possono essere alle volte facilmente confusi), fino all’americano quando c’è di mezzo la spacconagine (Bull Eye e quello schifoso – lasciatemelo dire perché lo odio a morte – nano maledetto di Varric).
La colonna sonora, a cura di Trevor Morris, si presenta come un enorme (ancora quest’aggettivo che ritorna) pastiche di temi epici, arrangiati senza dubbio perfettamente, cosí come perfettamente pomposi nel loro incedere e, anche qui, fortemente debitori di un certo atteggiamento compositivo che grazie a Hans Zimmer è ritornato in auge negli ultimi dieci, forse quindici anni di cinema. Si tratta di uno stile caratterizzato non solo dalla forte mescolanza di strumentazioni classiche ed elettroniche, ma anche da una certa aggressività e tensione quasi spesso affidata agli archi dell’orchestra, con una predilizione per le note basse e definitive messe in sequenza rapida sulla scorta di un tema evocativo, il tutto successivamente esaltato da un certosino lavoro di studio che non si limita solo a registrare, ma anche (grazie, Brian Eno) ad essere strumento stesso “pompando” cosí il tutto ai limiti del roboante. Un esempio calzante e recente di questo stile sono alcuni passaggi della colonna sonora dei Batman di Nolan ad opera appunto di Hans Zimmer. Nello score firmato da Morris per DAI troviamo quindi impeccabilmente schierati tutti i clichés di un paradigma musicale che sembra funzionare, almeno da un punto di vista dell’impatto che garantisce pur assistendo a temi banali e riconducibili sempre allo stereotipo del genere, ma comunque funzionali al gioco stesso e volti ad esaltare le situazioni più o meno calde.
Volendo riassumere tutto quanto detto finora, dirò che sí, Dragon Age: Inquisition è un gioco che vale la pena di essere comprato, anche a prezzo pieno, se siete amanti del genere. È decisamente rigiocabile ed i livelli di difficoltà più alta promettono sicuramente una sfida che darà certamente soddisfazioni a chi decidesse di affrontarli. Il titolo è vastissimo, oltre cento ore di gioco e renderà felici tutti gli appassionati della serie cosí come i neofiti. La varietà del party permette di sperimentare nuove tattiche di battaglia e di aggiungere profondità alla già complessa rete di trame e sottotrame che fanno da fondamenta alla quest principale, sia con le scelte morali alle quali verrete messi di fronte, tipiche dei giochi Bioware, che con la naturale simpatia o antipatia che potrete sviluppare per i vostri seguaci. Il sistema di combattimento è divertente, cosí come tutta la meccanica del crafting. Le mappe sono molto grandi e tutto il Thedas risplende di un level design fatto con passione e di grande impatto.
Sappiate anche però che complessivamente DAI è, per chi scrive si capisce, una forte delusione che ancora una volta mi impedisce di godere appieno di un prodotto Bioware. Trama rubacchiata qua e là, personaggi scontati e spesso molto piatti, scelte “morali” banali e assolutamente ovvie, un’estetica generale molto ben resa, ma priva di personalità e figlia di un minestrone alla buona di ogni stereotipo fantasy possibile ed immaginabile, contenutisticamente, visivamente e musicalmente. Anche se non vuol dire che il gioco sia brutto, per carità, è decisamente un aspetto su cui riflettere. Open World discutibile, personaggi un po’ monodimensionali e ambientazioni poco interattive, PNG messi lì come soprammobili ed una resa linguistica un po’ urticante, fanno da corollario ad un gioco che nasconde le sue magagne dietro un’evidente sfoggio di ricchezza di risorse che mascherano una spina dorsale carente e se vogliamo anche un po’ arretrata in termini di game play e level design. Un gioco DAI che offre in ultima analisi un’esperienza un po’ piatta al giocatore, seppur condita da numerosi ed illusori fuochi d’artificio.